Parità salariale uomo/donna e vecchi schemi

12 Maggio 2018 Rassegna stampa

Il 1° maggio da poco trascorso è stato, come ogni anno, l’occasione per dar fiato alle rivendicazioni che, come un mantra, vengono urlate al megafono da chi scende in piazza denunciando discriminazioni di ogni genere. Il tema a cuore dei manifestanti di quest’anno – anche perché d’attualità nella Berna federale – è la presunta importante discriminazione salariale tra i sessi.

Oggi ancora le donne si assumono la stragrande maggioranza delle attività non remunerate, sia nell’educazione di figlie e figli sia nei molteplici ruoli di sostegno e di volontariato. Attività determinanti e irrinunciabili per qualsiasi società funzionante. Un aspetto questo che va ripetuto continuamente e per il quale gli uomini dovrebbero mostrare più gratitudine, considerazione e rispetto.

All’origine dell’indignazione di chi denuncia una discriminazione salariale tra uomini e donne vi sono invece studi e metodi che insinuano l’esistenza di questa realtà anche in Svizzera. Proprio sulla base di questi calcoli – nel frattempo purtroppo accettati dalla classe politica e considerati dal Tribunale federale – il Consiglio federale tenta di imporre alle nostre imprese regolari censimenti per misurare eventuali discriminazioni, prevedendo una certificazione da parte di un ente indipendente e la presentazione dei risultati ai propri collaboratori. Il problema, come dice George Sheldon – una delle massime istanze accademiche in Svizzera per quanto riguarda il mercato del lavoro – è che questo agire lascia pensare che misurare tali differenze sia semplice come misurare la temperatura dell’aria. Ma così non è. Ne è prova una riflessione banale: se le donne – a parità di prestazioni – costassero veramente il 20% in meno rispetto agli uomini, ogni imprenditore assumerebbe tutte le donne prima di assumere un uomo.

Il metodo utilizzato dal Consiglio federale – che risale agli anni Settanta e sulla cui base oggi si rivendica, discute e legifera – considera solo 5 criteri: formazione, esperienza, età lavorativa (età effettiva meno anni di formazione), livello dei requisiti e posizione lavorativa. Le differenze salariali che questi criteri non considerano vengono imputate direttamente alla discriminazione tra i sessi. Sbagliatissimo secondo Sheldon, poiché da tempo i lavori accademici considerano e affinano ulteriori criteri che riducono e addirittura annullano la quota «non spiegata» di differenza e dunque la parte imputata alla discriminazione.

La politica federale farebbe bene pertanto a non farsi stordire dai fischietti del 1. maggio e, prima di combattere i presunti sintomi con controlli inefficaci e ulteriore burocrazia, agire in modo tale da mettere in condizioni entrambi i sessi di approfittare dell’attività lavorativa. Si tratta di trovare urgentemente soluzioni ai motivi che gli stessi studi evidenziano in tutta la loro ampiezza: le interruzioni di carriera da parte delle donne ad esempio vanno limitate il più possibile attraverso l’offerta di servizi di custodia per bambini a prezzi accessibili o strutture diurne nelle scuole che permettano alle famiglie di conciliare le proprie esigenze con quelle professionali. In qualità di datori di lavoro ci impegniamo con modelli di lavoro flessibili come il lavoro da casa, orari di lavoro su misura o forme di impiego a beneficio di chi vuole rientrare nel mercato del lavoro dopo aver avuto figli.

Se abbiamo davvero a cuore le pari opportunità nel mondo del lavoro, allora impegniamoci a favore di condizioni quadro che consentano sia alle donne sia agli uomini di partecipare alla vita lavorativa. Se invece preferiamo gridare a scandali, tutt’altro che accertati, rischieremo di penalizzare tutti: uomini, donne, famiglie e l’economia che ha bisogno di forza lavoro indigena.

L’opinione di Gian-Luca Lardi è stato pubblicato nel «Corriere del Ticino».