«Nessuna rendita prima dei 30 anni»: un investimento nei giovani

16 Maggio 2018 Opinioni

«Nessuna rendita prima dei 30 anni»; questo principio è stato discusso dalla commissione del Consiglio degli Stati nell’ambito della revisione dell’AI: invece di versare una rendita AI ai giovani affetti da malattie psichiche che hanno meno di 30 anni, occorre adottare misure di sostegno mirate per integrarli nel mercato del lavoro. La commissione ha incaricato l’amministrazione di concretizzare questa idea. Nella sua  risposta alla consultazione, l’Unione svizzera degli imprenditori ha indicato una possibile soluzione. Essa propone di versare alle persone interessate un’indennità giornaliera limitata nel tempo, associata a misure di reinserimento professionale. Grazie ad incentivi positivi, si tratta di incoraggiarli ad integrarsi nella vita attiva e a lavorare, almeno a tempo parziale. È sottointeso che i giovani adulti che soffrono ad esempio di gravi infermità congenite e che non hanno nessuna possibilità di trovare un’occupazione sul mercato del lavoro primario non sono toccati da queste riflessioni e continuano a beneficiare di una rendita AI. A tutti gli altri invece una rendita AI dev’essere versata solo a partire dal momento in cui un’integrazione professionale si rivela effettivamente impossibile a lungo termine.

I media hanno già espresso il timore di una riduzione delle prestazioni dei giovani beneficiari AI, che verrebbero scaricarti semplicemente in assistenza. La sinistra sembra dal canto suo preoccuparsi dell’aumento dei costi dell’AI generati da «costose misure di reinserimento». Ma qual è veramente l’idea che sottintende questo approccio: si tratta unicamente di misure di austerità mascherate o di una reale volontà di investire nell’inserimento professionale dei giovani che soffrono di un handicap?

Nel rapporto di ricerca dell’UFAS «Profilo dei giovani beneficiari di rendite affetti da malattie psichiche», l’autore Niklas Baer giunge alla conclusione che sarebbe opportuno introdurre un’età minima per la concessione delle rendite AI. Questo inciterebbe tutti gli attori interessati a rafforzare il loro impegno e la loro perseveranza in vista dell’inserimento professionale e del mantenimento dell’occupazione. Secondo Niklas Baer, i giovani adulti affetti da malattie psichiche – che rappresentano ben due terzi delle nuove rendite – giungono spesso troppo presto al beneficio di una rendita. Bisognerebbe lasciar loro più tempo per seguire delle misure di reinserimento e cercare di integrarli nel mondo del lavoro. La soluzione più semplice – il versamento di una rendita AI – diventa sfortunatamente sovente la soluzione «definitiva»: una volta entrati nel sistema dell’AI, le persone coinvolte vi si abituano e in generale non ne escono più. In un colloquio pubblicato recentemente, Niklas Baer cita il caso di una giovane donna che gli ha detto: «Il principale errore per quanto mi concerne è stato quello di avermi attribuito una rendita AI».

 

I giovani dovrebbero essere in grado di lavorare e di non aver bisogno in futuro di una rendita

Una rendita AI crea dipendenza e favorisce la stigmatizzazione sociale, senza parlare della perdita di fiducia in sé stessi. I giovani che non possono lavorare si ritrovano spesso ai margini della società. Da qui l’importanza del principio «nessuna rendita prima dei 30 anni», che lancia un segnale positivo ai giovani: essi devono poter lavorare invece di ricevere una rendita. Investire in misure di inserimento professionale permette non solo di migliorare la situazione personale dei giovani, ma anche la situazione finanziaria a lungo termine dell’AI e delle PC.

Se si vuole sfruttare meglio la manodopera indigena e lottare efficacemente contro la penuria di lavoratori qualificati, che si aggraverà immancabilmente con l’imminente pensionamento della generazione dei babyboomer, occorre anche rafforzare le misure destinate a inserire i giovani nel mondo del lavoro. I datori di lavoro l’hanno compreso e si impegnano sempre più con successo a favore dell’integrazione professionale, come testimoniano le cifre: dal 2012, circa 20’000 persone iscritte all’AI hanno potuto, ogni anno, conservare o trovare un nuovo impiego. Del resto, il numero di persone la cui occupazione è stata mantenuta (senza che il sistema dell’AI abbia dovuto intervenire) grazie a misure mirate quali il case management proposto dagli assicuratori privati o dai datori di lavoro, è certamente ancora più elevato. Da un punto di vista economico, le imprese hanno dunque tutto l’interesse a mantenere i loro dipendenti nonostante il loro handicap. Questo perché le lunghe assenze sono sinonimo di costi elevati e di perdite di conoscenze.

I timori relativi all’approccio «nessuna rendita prima dei 30 anni» sono dunque infondati. Invece di una guerra di trincea ideologica, i parlamentari dovrebbero lavorare seriamente su misure professionali mirate per aiutare i giovani adulti con disabilità ad integrarsi nel mondo del lavoro. Infine, considerate le 3’000 rendite versate ogni anno a persone di età inferiore ai 30 anni, optare direttamente per il versamento di una rendita invece di investire maggiormente in misure d’integrazione nel mondo del lavoro corrisponde a un fallimento.